Oggi molti blogger parleranno del Referendum del 17 aprile sulle trivellazioni nel Mar Adriatico. Accetto l’invito di Donne Viole, di Sabrina Anacarola. Ecco il mio contributo.
Il 17 aprile si vota per il referendum sulle trivellazioni. Si tratta di una consultazione popolare promossa da nove consigli regionali – Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise – e appoggiata da movimenti e associazioni ambientaliste, nata con l’obiettivo di fermare le trivellazioni nei mari italiani.
Perché si vota. Il referendum chiede di abrogare il comma 17 dell’articolo 6 del Codice dell’ambiente – dlgs n. 152 del 2006 – nella parte in cui prevede che le trivellazioni nelle acque territoriali italiane – cioè quelle che si trovano entro le 12 miglia dalla costa – continuino fino a quando il giacimento lo consente. Sostanzialmente si chiede: “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?”
Per essere valido il referendum deve raggiungere il 50% degli aventi diritto. Se vince il fronte del “sì” verranno bloccate le concessioni alla scadenza dei contratti. Ad essere interessate saranno solo alcune delle 106 piattaforme petrolifere presenti nel mare territoriale italiano. Se a passare, invece, sarà il fronte del “no”, la situazione resterà invariata e quindi alla scadenza delle concessioni le compagnie petrolifere potranno chiedere un prolungamento.
Come si è arrivati al referendum Nel lontano aprile 2010, dopo l’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon della BP nel Golfo del Messico, l’allora ministro all’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, a giugno dello stesso anno vieta le attività petrolifere lungo tutta la fascia costiera italiana portando il limite di interdizione da 5 miglia (poco più di 9 chilometri) a 12 miglia. Passano gli anni e tra altre vicende varie si arriva al 2012 con la Strategia energetica nazionale e nel 2014 il governo Renzi converte in legge il decreto Sblocca Italia che rende strategiche, urgenti ed indifferibili tutte le attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi ed opere connesse, trasferendo il potere decisorio in materia dalle Regioni allo Stato.
Le polemiche sulla data. Il punto più controverso riguarda la data: lo scorso 15 febbraio, su proposta del Consiglio dei ministri, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fissato il referendum per il 17 aprile. In molti avevano chiesto, invece, di votare a giugno, in concomitanza con le elezioni amministrative in diverse città italiane, per risparmiare sull’allestimento dei seggi. Il governo però ha declinato questa possibilità.
Secondo l’associazione ambientalista Greenpeace, però, si tratta di “uno spreco gratuito di risorse pubbliche che sarebbe stato possibile risparmiare con l’Election Day”: “Tutto per scongiurare il quorum elettorale, svilire l’istituto referendario, avvantaggiare i petrolieri”. Perplessità sono state espresse anche da Legambiente, secondo cui “la scelta del governo di far votare gli italiani il 17 aprile comporta che i tempi per informare i cittadini sul referendum sulle trivellazioni in mare e sull’importanza del quesito siano strettissimi”.
Per legge, infatti, la propaganda elettorale inizia il trentesimo giorno prima della votazione, cioè il 18 marzo. Troppo poco, per le associazioni, per spiegare alla popolazione “che tutto il petrolio presente sotto il mare italiano basterebbe al nostro Paese per sole sette settimane, mentre già oggi produciamo più del 40% di energia da fonti rinnovabili”.
Le ragioni del “sì” Lo scorso 20 febbraio alcuni attivisti di Greenpeace sono entrati in azione a Roma davanti all’altare della Patria mostrando lo striscione “L’Italia non si trivella” per sensibilizzare i cittadini sul referendum del 17 aprile. Secondo Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace, “le trivelle sono una grave minaccia per i nostri mari, e già questo sarebbe motivo sufficiente per respingerle. Ma esse rappresentano anche un indirizzo energetico insensato, che condanna l’Italia alla dipendenza dalle fonti fossili. Un favore alle lobby del petrolio che espone a rischi enormi economie importanti come il turismo e la pesca”.
Nel rapporto Trivelle Fuorilegge di Greenpeace vengono resi noti i dati ministeriali relativi all’inquinamento generato da oltre trenta trivelle operanti nei mari italiani. Secondo lo studio,
“sostanze chimiche pericolose, con un forte impatto sull’ambiente e sugli esseri viventi, si ritrovano abitualmente nei sedimenti e nelle cozze che vivono vicino le piattaforme offshore in Adriatico”. Le concentrazioni di queste sostanze in oltre il 70% dei casi registrano livelli oltre i limiti di legge. “I dati mostrano una grave contaminazione da idrocarburi policiclici aromatici e metalli pesanti, molte di queste sostanze sono in grado di risalire la catena alimentare fino a raggiungere gli esseri umani”, si legge nel rapporto.
Le ragioni del “no”. Chi si oppone al referendum sostiene che una vittoria del “sì” potrebbe avere forti ripercussioni sul mercato con conseguente fuga di investimenti e possibile chiusura di imprese. Sul fronte del “no” anche il segretario nazionale dei chimici della Cgil, Emilio Miceli, che ha dichiarato che “in un mondo attraversato dall’ombra della guerra e con il rischio di un coinvolgimento fortissimo dell’Italia, sarebbe un errore strategico, fatale per il nostro paese vietare l’estrazione di idrocarburi”, anche per quanto riguarda i livelli occupazionali. Ma la posizione del sindacato non è uniforme anche a livello delle singole regioni.
Secondo Greenpeace “la propaganda del governo millanta numeri gonfiati su quanto si potrebbe estrarre dai nostri fondali e su quali sarebbero le ricadute economiche per il Paese, ma non è disponibile alcuna stima dei danni che le trivelle potrebbero arrecare ai mari italiani, al turismo e alla pesca: la cancellazione del ‘Piano delle aree’ (ovvero dello strumento di pianificazione d’insieme di queste attività) dimostra in modo chiaro che palesare e valutare i rischi delle trivelle non è questione che interessi al nostro esecutivo.
In conclusione, questa volta tocca ai cittadini decidere sul futuro del Mar Mediterraneo. Informatevi e andate a votare: il quorum dev’essere raggiunto perché la votazione sia valida.
*Nota* questo post è un riassunto del seguente articolo. Per approfondire, gli articoli di Greenpeace, Internazionale, Politica al femminile, e altri ancora reperibili online.
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